
Sono trascorsi esattamente 100 anni dal delitto Matteotti, un evento rivelatore dell'Italia che stava entrando nell'era fascista. Le elezioni del 6 aprile 1924 si tennero in un paese dove le forme liberali esistevano ancora, ma erano condizionate da violenza e brogli. La legge Acerbo, voluta da Mussolini, garantiva i due terzi dei seggi alla Camera per chi superasse il 25% dei voti. Il "Listone Mussolini," una vasta coalizione di fascisti, liberali e cattolici, ottenne il 60% dei voti.
Il 30 maggio 1924, Giacomo Matteotti, deputato socialista di 39 anni e segretario del Partito Socialista Unitario (PSU), rovinò il trionfo fascista alla Camera. Fece un discorso di un'ora e un quarto, interrotto continuamente dagli insulti fascisti, denunciando le violenze e le illegalità che, a suo dire, invalidavano completamente le elezioni. Rivolgendosi a un collega disse: "Adesso preparatevi a fare la mia commemorazione".
Due giorni dopo, sul suo giornale Il Popolo d'Italia, Mussolini scrisse che la maggioranza era stata fin troppo paziente con il discorso "mostruosamente provocatorio" di Matteotti, e che esso avrebbe meritato una "risposta più concreta". In precedenza, Mussolini aveva già scritto che Matteotti rischiava di trovarsi "con la testa rotta, ma proprio rotta".
Il 10 giugno 1924, Matteotti fu rapito mentre usciva di casa a piedi, sul Lungo Tevere Arnaldo da Brescia. Fu caricato a forza e malmenato in un'elegante Lancia Lambda. Gli inquirenti scoprirono che l'auto era stata noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del giornale filogovernativo Il Corriere Italiano, per conto di Amerigo Dumini.
Dumini era il capo della cosiddetta "Cecca fascista" o "Cecca del Viminale", uno "squadrone della morte" utilizzato per omicidi politici mirati. Dumini, giornalista del Corriere Italiano con stipendio abbondante, fu arrestato il 12 giugno.
Dopo il rapimento, i vertici dello Stato e del partito fascista, tra cui il sottosegretario all'Interno Aldo Finzi, il capo della polizia Emilio De Bono, e i dirigenti del partito Cesarino Rossi e Giovanni Marinelli (questi ultimi due dirigevano la Cecca), si riunirono per decidere cosa fare. Dumini confessò subito che Matteotti era morto in macchina, per malore o per le botte ricevute.
Mussolini, per salvarsi, costrinse alle dimissioni Finzi, Rossi e De Bono. Rossi, a sua volta, scrisse un memoriale, ricattando il Duce e affermando che Mussolini aveva ordinato personalmente il delitto.
Nonostante il ritrovamento del cadavere ad agosto e il ritiro delle opposizioni all'Aventino, il re e il Senato mantennero la fiducia a Mussolini. Il 3 gennaio 1925, Mussolini pronunciò il discorso in cui si assumeva la "responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto", segnando l'inizio della dittatura.
Nel 1926, Dumini e i suoi complici furono condannati per omicidio preterintenzionale a una pena ridotta dall'amnistia per i reati politici, uscendo di prigione dopo soli due mesi. I mandanti di alto livello (Rossi, Marinelli, Filippelli) furono messi fuori dal processo grazie all'amnistia per reati politici.
I destini di molti dei protagonisti furono tragici: De Bono e Marinelli furono fucilati a Verona per ordine di Mussolini nel 1944, e Aldo Finzi fu fucilato alle Fosse Ardeatine. Dumini, invece, sopravvisse a lungo, beneficiando di amnistie anche nel dopoguerra.